domenica 23 marzo 2008

SINDACO, DIMETTITI!!! Un'analisi di carattere socio-linguistica. Prima parte.

Vorrei cimentarmi con un’analisi di carattere socio-linguistico sui manifesti e volantini politici venosini. L’obiettivo è quello di far emergere gli elementi culturali sottostanti a tali testi per cercarne soprattutto la continuità con la cultura più generale che contraddistingue diffusi modi di pensare e di agire presenti nella nostra società. Per forza di cose, nel condurre “analisi culturali” di una certa sostanza, si è anche polemici. Negli ultimi tempi la vis polemica delle mie analisi culturali ha fatto sì che venissi momentaneamente escluso dalle discussioni che si tengono in un forum venosino on line. Spero che queste analisi non mi portino altri guai.

Comincio con un manifesto di questi giorni dal titolo: SINDACO, DIMETTITI !!!

Il manifesto è sostanzialmente suddiviso in tre parti. Una parte introduttiva (difensiva), in cui si rimandano al mittente alcune accuse che poi vedremo. Una parte centrale in cui si argomenta sul perché si richiedono le dimissioni del sindaco (cioè si passa dalla difesa all’attacco). Una parte finale in cui si chiedono appunto le dimissioni del primo cittadino venosino (la controffensiva finisce con la stoccata conclusiva).

Da un punto di vista contenutistico ciò che convince meno è proprio la parte introduttiva. La riporto integralmente. Il grassetto è mio e mi serve per evidenziare punti su cui focalizzerò l’attenzione.

Nei giorni scorsi sui quotidiani locali sono apparsi articoli che accusavano i consiglieri comunali Dileo, Dinapoli, Brunetti e Prosperato di inaffidabilità politica e di tradire il mandato elettorale. Il consigliere Dileo è stato tacciato di avere avuto “ambigui trascorsi politici”. Non intendiamo fare polemica e rispondere pan per focaccia a queste affermazioni, ma ci interessa rilevare solo un dato politico importante: è già dall’agosto del 2007 che questa amministrazione non ha più maggioranza politica! Oggi, il Sindaco Castelgrande mantiene la sua maggioranza numerica solo perché appoggiato da un undicesimo consigliere. Luigi Russo, anche lui eletto nella lista del consigliere Dileo.
Caro Sindaco, non è forse Luigi Russo quello che ha avuto realmente “ambigui trascorsi politici”? Vogliamo chiederci perché è saltato sul carro dei vincitori? Quali le motivazioni politiche? Cosa si aspetta di ottenere da questa amministrazione oramai ridotta all’anarchia politica? Ma il problema è ancora più grave e non riguarda solo il consigliere Russo.


Il manifesto è a firma proprio dei quattro consiglieri appena citati. Se è a firma loro perché usano la forma impersonale “accusavano i consiglieri comunali” ? Perché poi riprendere una forma “personale” : “non intendiamo fare polemica” ? E’ affascinante questo passaggio dalla terza persona plurale alla prima persona plurale. Quasi a voler prendere le distanze quando si parla delle accuse ricevute (quindi l’uso della terza persona plurale) e a voler invece ri-impadronirsi della prima persona plurale nel momento in cui si passa alla controffensiva. Personalmente io avrei usato la prima persona plurale sin dall’inizio perché se si è nel “campo di battaglia” bisogna esserci interamente ed integralmente da subito tenendo così alta la tensione emotiva, umana e drammatica sin dalle prime battute.

Ma l’aspetto più interessante di questa parte introduttiva sta nel contenuto del “non intendiamo fare polemica” . In realtà il manifesto è stato scritto proprio per fare polemica. Non solo. Nel manifesto si risponde proprio “pan per focaccia” . Cioè si controbatte ad un’accusa con un’altra accusa e poi si rincara la dose. Si usa quindi la tecnica retorica (“retorica” nel senso originario del vocabolo) più antica del mondo: contro-accusa, rincaro della dose, stoccata finale.

Perché premettere di non voler fare polemica? Un elemento culturale molto diffuso nella nostra società è quello di pensare che se si nega qualcosa in modo esplicito (premesso che non sono fascista, premesso che non sono razzista, premesso che sono contro la guerra, premesso che non voglio far polemica…) poi si può “tranquillamente” affermare ciò che si è negato come se invece non lo si stesse affermando. Cioè se io (io generico) dico premesso che non sono fascista e subito dopo affermo che ci vorrebbe uno come Mussolini per risolvere i problemi della società, mi sento al riparo dall’accusa di essere considerato fascista.

Ma nel caso del “non intendiamo fare polemica” emerge un altro elemento della cultura della nostra società: considerare in modo negativo le polemiche. Le polemiche non sono un elemento negativo in sé. Lo sono se di cattiva qualità, se irrilevanti, se non sostanziali. Ma la cattiva qualità, l’irrilevanza e la non sostanzialità sono caratteristiche con cui bisognerebbe giudicare in modo negativo anche un ragionamento sereno. Per quanto mi riguarda, sono proprio strutturalmente incapace di discutere su un argomento senza finire in una polemica. E ne vado fiero. Significa che c’è della materia viva nella discussione alla quale sto partecipando. Quindi, il mio è un invito a non temere di far polemiche. Inoltre, credo che sia proprio il negare di voler far polemiche che produce nella nostra società un altissimo numero di polemiche inutili. Perché io (io generico) nego di volerle fare, poi quindi le faccio e non mi concentro sulla qualità della polemica, sull’intelligenza delle affermazioni perché è come se non stessi facendo nessuna polemica. Lo so, può sembrare un pensiero contorto ma se si capisce quello che intendo dire, credo si capisca anche perché ritengo causa delle numerose polemiche proprio il fatto di considerare in astratto le polemiche un elemento negativo.

Nei prossimi giorni continuo l’analisi del manifesto. Concludo sottolineando come all’accusa degli “ambigui trascorsi politici” non si risponde dimostrando l’infondatezza della stessa, ma contro-accusando di “ambigui trascorsi politici” una persona ora vicina al sindaco. Come scritto sopra, si è risposto proprio “pan per focaccia”.

Davvero un ultimo pensiero. Chi non conosce i fatti non si raccapezzerebbe leggendo che il manifesto è anche a firma del consigliere Dileo che è uno degli accusati e che la contro-accusa è rivolta al consigliere Russo che è stato eletto nella lista del consigliere Dileo. Vi assicuro che chi non sa, leggendo questa cosa, potrebbe accusare un forte mal di testa. Cosa intendo dire? A chi si rivolgono questi manifesti, a chi sa o a chi non sa? Questa è la domanda su cui mi soffermerò nella seconda parte in cui analizzerò la parte centrale del manifesto, quella che è anticipata da un elemento narrativo di suspense che si dipinge di giallo e quindi evidenzio in grassetto: “ma il problema è ancora più grave e non riguarda solo il consigliere Russo.” (se fosse un film, qui partirebbe un TA-TA-TA-TA). Mi si perdoni l'ironia.

Alla prossima.

venerdì 1 febbraio 2008

I vicerè di R. Faenza

In genere non amo fare recensioni di film appena visti al cinema perché una recensione seria è un'analisi seria, elaborata e approfondita del film in tutti i suoi aspetti formali e contenutistici, e quindi bisognerebbe riflettere sul film per un po' di tempo, magari rivederlo, informarsi e poi scrivere. Quindi solo pochi film appena usciti al cinema mi spingono, perché meritano, a fare questo lavoro. Per tutti gli altri mi limito ad un breve commento orale con i miei amici.

Se sono qui a scrivere su un film appena visto al cinema è per motivi che vanno al di là del valore del film in sé. Ne scrivo perché vorrei denunciare l'appiattimento della percezione delle cose, della realtà, delle emozioni inculcataci dalla televisione.

Il film di Faenza è terribilmente televisivo. Per Faenza così come per la televisione, se un padre imbronciato dà uno schiaffo ad un figlio che non segue i suoi rigidi e autoritari insegnamenti (il film non va per il sottile ci mostra subito nella prima scena il bambino che cammina in ginocchio perché si deve formare il carattere) allora si è costruito un rapporto padre (cattivo, autoritario) -figlio (sensibile, ribelle). Il figlio sensibile, ribelle lo si manda in un collegio-monastero. E noi spettatori già sappiamo che i collegi-monasteri sono una "faccenda dura" e quindi il film non fa altro che alimentare qeusta nostra idea con una-due scene (non di più, tra l'altro scontate, denotative e affatto incisive) in cui si fa vedere il mostruoso collegio-monastero. Il rapporto di amicizia tra il protagonista (il figlio sensibile, ribelle) e il suo amico Giovannino è appena fatto vedere ma è dato per scontato che i due siano amici e legati tra di loro. Stessa cosa con il rapporto tra il protagonista e la madre, il protagonista e la sorella, il protagonista e il servo che lo accudisce. Tutti rapporti che sono già così prima del film (cioè a priori) nella mente dello spettatore e che il film quindi si limita solo a costruire con una o due scene e poi quel rapporto è dato. La cosa più terribile è che poi il fim pretende pure che noi spettatori ci commuoviamo quando vediamo il monastero in rovina e il parroco che, legato ad esso, ci è rimasto dentro e che mostra ai ragazzi dove dormivano (ma se nel film ci hanno fatto vedere i ragazzi nel monastero per soli cinque minuti!!!!!!). E tale commozione ci è richiesta anche tante altre volte nel film ma sempre in modo pretestuoso. Ovviamente poi il tutto è condito con un'infinità di stereotipi e con spunti narrativi davvero imbarazzanti (ad esempio, il bimbo che "entra" nelle scene, dandone sviluppo, spiando sempre da tutte le parti e con tutti i mezzi con cui si possa farlo. Oppure mi riferisco alla gratuità narrativa, cioè al modo inconsistente in cui sono costruite le scene di impatto emotivo del film).

Poi se a questi personaggi si mettono addosso dei costumi ottocentesci e li si fa muovere in spazi scenograficamente ottocenteschi allora gli autori del film pensano (malamente) di aver inserito il tutto in un contesto storico e di aver fatto un film storico.

Lo dico con estrema decisione. Il cinema, fatto così, diventa immorale. Il cinema deve aiutarci a vedere la complessità della realtà, ad uscire dai nostri schemi mentali. Il cinema deve farci vedere come nascono e si sviluppano i rapporti tra le persone, le dinamiche sociali, le emozioni dei singoli individui. Se il cinema illustra senza raccontare, mostra senza rappresentare, fotografa senza dare vita, allora rimane in superficie e non va in profondità, cioè non è cinema ma è televisione. Ed è troppo facile parlare male di televisione attaccando i reality. Quelli sono solo la parte più evidente, più esposta (se mi è consentito il termine) dell'orrore televisivo. La parte più subdola, e quindi più immorale e pericolosa, dell'orrore televisivo (consentitemi la ripetizione dell'espressione), è costituita proprio dalle tante fiction che abituano il nostro sguardo a non essere critico, a non elaborare la realtà ma a prenderla così come è. Tutto ciò che alimenta la superficialità (nel senso proprio di rimanere in superficie), la piattezza, la inconsistenza, è immorale.

PS: Troppo scontato consigliare la visione del Gattopardo. Per capire cosa significa raccontare la storia, le dinamiche sociali, i personaggi e la loro complessità si veda quel capolavoro enorme che è Barry Lindon di Kubrick. Per chi vuol capire invece cosa significa raccontare (cioè elaborare con scene, spunti narrativi, dialoghi, sguardi, ecc. ecc. e senza dare niente per scontato e senza facili pateticismi) un rapporto di amicizia tra ragazzi e la realtà di un collegio, si veda Arrivederci ragazzi di L. Malle. Ma sono solo i primi film che mi sono venuti in mente e direi che mi sono venuti anche ingiustamente in mente vista la sproporzione tra loro e il filmettino televisivo di Faenza.

venerdì 18 gennaio 2008

Proiezioni dal mondo


Sembra il programma di un festival internazionale la rassegna di film prevista per il 3° cineforum, organizzato dal Centro di Aggregazione Giovanile e dal movimento culturale il Tarlo, che si terrà a Venosa al Cinema Lovaglio dal 15 febbraio a fine marzo. Sono in rassegna cinque film che provengono dal di fuori dei confini italiani, dalla Turchia (Ai confini del Paradiso), dal Medio Oriente (Caramel e Meduse), dagli Stati Uniti (Paranoid Park), dal Canada (L’età barbarica) ed un film italiano girato nel materano (Il rabdomante). Tre di queste pellicole (Meduse, Ai confini del Paradiso, Paranoid Park) hanno anche ottenuto prestigiosi premi nell’ultima edizione del festival di Cannes. Caramel concorre per il titolo di Oscar come miglior film straniero.

Caramel è un film corale al femminile ambientato in una Beirut a metà tra tradizione e modernità. La regia non lascia tracce particolarmente significative, la sceneggiatura è invece molto delicata (pur con dei momenti non proprio a fuoco). Nel complesso il film è in grado di toccare le emozioni dello spettatore.

Ai confini del Paradiso è l’opera seconda di Fatih Akin autore del fortunato (sia come successo di pubblico che di critica) La sposa turca. Alcuni hanno trovato eccessivamente melodrammatico questo nuovo lavoro del regista tedesco di origini turche, altri hanno evidenziato l’artificiosità degli incastri narrativi. Chi scrive ritiene invece che il film di Akin ha dei momenti di intensità emotiva molto profondi e molto veri, e si tratta di quella verità che trascende il concetto di verosimiglianza sia a livello narrativo che psicologico.

Meduse è il gioiellino della rassegna. Un piccolo film che parla di sentimenti in modo semplice ma raffinatissimo. Il tutto attraversato da un’atmosfera magica, fiabesca più che surreale.

Paranoid Park è un parco di Portland (Oregon) in cui i ragazzi s’incontrano per fare skateboard. Gus Van Sant lo dipinge come un luogo interiore più che fisico e tutte le vicende che accadono sono rappresentate così come percepite a livello emotivo e mentale dal ragazzo protagonista del film.

L’età barbarica di Dennys Arcand è l’ultimo tassello del puzzle che il regista canadese ha cominciato a comporre con Il declino dell’impero americano e Le invasioni barbariche, per parlarci della sua visione sociale e morale del mondo contemporaneo.

Il rabdomante è stato girato in Basilicata a Matera e dintorni. E’ un film apprezzabile per il tentativo di mescolare diversi generi. E’ una storia di amicizia, di fratellanza, d’amore. Lo abbiamo scelto anche perché affronta il problema dell’acqua come bene comune, problema su cui vorremmo soffermarci a discutere.

Ad ogni film seguirà un dibattito all’interno del quale si analizzeranno e si approfondiranno gli elementi contenutistici e formali del film.

Obiettivo primario di una rassegna è quello di farsi ricordare. Ci auguriamo quindi che lo sguardo sulla realtà, su noi stessi, in seguito al percorso di film proposto, ne esca arricchito se non addirittura rinnovato.

giovedì 3 gennaio 2008

Sono soddisfatto

Sento di aver vinto la scommessa.

Ho voluto produrre un cortometraggio dal nome "La fine del mondo", scritto da Fabio Divietri e diretto da Tiziano Doria, con l'idea di vincere alcune sfide.

1. Trasporre in forma breve i canoni narrativi tradizionali del lungometraggio. Mi piaceva l'idea di creare tra il lungometraggio e il cortometraggio lo stesso rapporto che c'è tra romanzo e racconto. Un'idea affascinante ma allo stesso tempo molto complicata. I lungometraggi sono in genere costituiti da una parte iniziale, due punti di svolta narrativi, una parte centrale tra questi due punti di svolta, una parte finale dopo il secondo punto di svolta e poi il finale vero e proprio. I lungometraggi si prendono tutto il tempo (in genere la prima mezz'ora di film) per costruire ambientazioni, personaggi e per far partire la prima svolta narrativa del film. In un cortometraggio ti giochi tutto invece nei primi minuti. Poi i lungometraggi spesso soffrono nella parte centrale, cioè quando dalla prima svolta narrativa si deve passare alla seconda. In questa parte i lungometraggi diventano farraginosi e banali perché in genere per tenere in piedi la parte centrale ci si rifa a tutta una serie di canoni narrativi o di costruzione dei personaggi molto scontati. Il cortometraggio invece ha la forza di poter essere snello nella parte centrale tra i due punti di svolta e ti puoi giocare la narrazione su pochi spunti ma forti ed essenziali. Molti lungometraggi crollano dopo il secondo punto di svolta narrativo perché non riescono ad imprimere una vera e propria svolta o al personaggio o alla narrazione, oppure perché ci si perde troppo nella narrazione perdendo il controllo dell'atmosfera e dello spessore "tematico" del film. Credo che con il nostro cortometraggio abbiamo stravinto la sfida dal primo punto di svolta in poi e ci siamo mantenuti a galla nella parte iniziale. Quindi non posso che essere soddisfatto.

2. Stilisticamente abbiamo voluto fare un noir, con dei canoni narrativi tipici del noir ed anche con la fotografia e le ambientazioni tipiche da noir, ma con una regia di stampo europeo. Se ne parlo con qualcuno che ne capisce di cinema mi prende per matto perché abbiamo tentato un'operazione stilistica estrema. Secondo me, anche in questo caso, la sfida è stata stravinta. Abbiamo eliminato gran parte del pathos narrativo tipico dei noir, concentrandolo solo sui punti di svolta. Purtroppo la lentezza del film affascina un po' meno il grande pubblico però credo che chiunque, anche ritenendo eccessivamente lento il film, rimanga con la curiosità di vedere come si svolgono i fatti.

3. Abbiamo usato un linguaggio "letterario" ed abbiamo optato per una verbosità che doveva essere integrata con quello che si vede ma allo stesso tempo doveva "viaggiare" parallelamente a ciò che si vede, con il preciso intento di contribuire a rendere il film al di fuori del tempo e dello spazio e di farne una riflessione esistenziale universale. Certo di primo acchito può apparire come un'opera verbosa ma a me il risultato convince. Lo dico in punta di piedi, la verbosità del corto mi ricorda a tratti "La sottile linea rossa". Comunque sia, anche questa è stata una sfida. Usare il tipico linguaggio da noir avrebbe reso l'opera più banale.

4. Il cortometraggio è lontanissimo da quel provincialismo italiano di cui soffre gran parte del nostro cinema. Nonostante l'accento lucano con cui recitano gli attori, il corto si vive come un'opera non collocabile nello spazio e nel tempo.

E' un'opera prima, e quindi si porta dietro le ingenuità e le imprecisioni da opera prima, ma nel complesso mi ritengo molto soddisfatto e già desideroso di lanciarmi in un nuovo progetto.

Vi aspetto venerdì 4 gennaio alle 21.00 in via Toscana, 6, per la proiezione della prima.

mercoledì 5 dicembre 2007

Spazi pubblici attrezzati.

Sedici anni fa lo chiamavamo centro sociale ed io scrissi anche un volantino dove chiedevamo a gran voce la sua realizzazione. Oggi abbiamo preferito l’espressione spazi pubblici. Ed è giusto così. Centro sociale può dare adito all’idea che la socializzazione sia una “cosa” da fare in un posto ben preciso. Io invece credo che ovunque si debba socializzare. Immagino non solo centri sociali, ma anche periferie sociali, una scuola sociale, una chiesa sociale, la famiglia sociale, ed anche il bar, la piazza, lo stadio sono “centri sociali”. Perché no, pure la fila alla posta è un momento di socializzazione. Ogni volta che noi interagiamo con gli altri (con i professori, il prete, i genitori, gli amici ecc.) bisogna vivere tale interazione come un momento di socializzazione. Poi è importante far crescere in noi la componente individuale che deve sempre rimanere viva. Cioè l’individuo cresce nella socializzazione, gode della socializzazione senza però mai annullare la propria individualità.
Quindi non mi piace l’idea di centro sociale come luogo specificamente adibito alla socializzazione o alla socialità, che dir si voglia, quasi a voler sostenere che al di fuori di esso è la componente individuale a prevalere. Meglio l’espressione spazi pubblici, ed aggiungerei l’attributo “attrezzati”. Spazi pubblici attrezzati. Nell’interagire tra di noi, abbiamo bisogno di condividere interessi, passioni, argomenti su cui discutere. Avere un posto, ad esempio, dove ascoltare e poter fare musica permette appunto di condividere interessi, passioni ed argomenti su cui discutere. Ed è questo il motivo per cui ci devono esserci questi spazi. Non mi piace l’idea che bisogna mettere su questi posti per combattere il disagio giovanile o la noia. Voler stare insieme per condividere interessi, passioni ed argomenti su cui discutere è forse una delle cose più belle della vita. E’ la gioia in sé del voler stare insieme che ci deve far sentire l’esigenza di incontrarci. E’ molto triste pensare di voler fare una cosa per combatterne un’altra, come voler stare insieme per combattere la noia. E’ molto più bello, a parer mio, voler fare una cosa per la bellezza in sé di quello che si sta facendo. E’ bello voler stare insieme semplicemente perché è bello stare insieme. Poi se il disagio giovanile diminuisce bisogna considerarlo come una conseguenza. Inoltre, sono abbastanza convinto che i vari “disagi”, e quindi non solo quello giovanile, abbiano più facilità di germogliare proprio lì dove è presente una mentalità piuttosto deprimente che vuole che noi facciamo le cose per tappare dei buchi, per risolvere problemi, appunto per combattere qualcos’altro. Va bene pensarla in questo modo se dobbiamo fare delle cose necessarie. Potrei ritrovarmi a fare un lavoro che non mi piace ma farlo lo stesso perché ho bisogno di soldi per vivere. Ma pensare che dovrei voler sentire l’esigenza di stare insieme perché altrimenti starei tutto il tempo in un bar a bere birra, mi deprime come idea. Ripeto, voler stare insieme per condividere passioni, interessi e argomenti su cui discutere, è una cosa bellissima in sé, una delle cose più belle della vita.
Infine vorrei porre l’accento su un elemento affettivo. Ci si lamenta che i giovani tendono sempre di più ad abbandonare il paese per cercare prospettive altrove. La causa dell’emigrazione è da imputare soprattutto alle possibilità lavorative che nel nostro paese sono sempre più scarse. Ma a parer mio tutto ciò avviene anche perché per voler rimanere in un posto, noi dobbiamo sentire che quel posto ci appartiene. “Riempiendo” il nostro paese di “motivazioni” da dare ai più giovani per amarlo, i più giovani sentiranno sempre di più di dare il loro contributo affinché ci si metta attorno ad un tavolo e si cerchino di individuare le strade lavorative che permettano di avere una possibilità concreta per restare.

martedì 16 ottobre 2007

La scuola, secondo me

Questa è la mia ricetta per migliorare la scuola.

Obiettivo.
Mi porrei come obiettivo che i ragazzi finite le scuole superiori sapessero almeno le nozioni di storia, di geografia, di matematica, di letteratura ecc. che attualmente s'imparano nelle scuole medie inferiori. Considerando la dilagante ignoranza degli studenti (sia di quelli bravi che degli asini), la scuola sta fallendo nel raggiungimento dell'obiettivo primario di trasmissione della conoscenza. E per giustificare questo totale fallimento la scuola ha escogitato di ricorrere al concetto della "forma mentis". Cioè non è importante sapere ma è importante essersi formati una forma mentis, avere acquisito il metodo. Che idiozia! Si va a scuola per 13 anni, si dedicano alla scuola (compresi i compiti) decine di migliaia di ore, per formarsi la forma mentis? O per aver acquisito un metodo? (anche giocando a scacchi o facendo i cruciverba si acquisisce un meotodo). La verità è che se si finiscono gli studi superiori senza nemmeno sapere le cose che s'imparano alle scuole medie inferiori, per quanto mi riguarda la scuola non può essere considerata una cosa seria ma una colossale pagliacciata purtroppo utile solo per poter fare l'università (e lasciamo stare il discorso università) o per avere un diploma riconosciuto sulla carta spendibile nel mondo del lavoro.

Cosa s'impara oggi dopo 13 anni di scuola? A scrivere (il minimo ovviamente, la maggior parte delle persone fa errori imbarazzanti), leggere (pratica utilizzata essenzialmente per i menù dei ristoranti, per le etichette degli ascensori quando lo si prende in compagnia, per i titoli dei giornali e per gli articoli di gossip). Qualcuno impara un po' di matematica, di ragioneria (insomma un po' di linguaggi tecnici). Ma solo una minoranza di studenti impara i linguaggi tecnici ed infatti sono talmente rari che spesso sono chiamati geni. Qualcun altro impara a giocare con le versioni di latino e greco per acquisire il famoso metodo. Infine un po' tutti acquisiscono una serie di nozioni (direi più che altro di sensazioni) sparse e vaghe. Pardon, si acquisisce anche la forma mentis. Chi avesse acquisito veramente la forma mentis si considererebbe una merda di persona per il fatto che dopo 13 anni di scuola, dopo 13 anni di studio, rimane in sostanza un emerito ignorante.

Quindi cosa farei:

1. ridurrei drasticamente le ore di scuola. Se proprio bisogna andare tutte quelle ore a scuola per far stare insieme tra di loro i ragazzi e per dar da mangiare ai professori, allora aumenterei le passeggiate, le gite, i giochi, i laboratori, la visione di film, ecc. ecc.
2. farei studiare storia, geografia, letteratura ecc. dalle scuole superiori verso i 15-16 anni con i libri che oggi si usano per le scuole medie inferiori.
3. fino a 15-16 anni insegnerei solo cose tecniche come scrivere, leggere, la grammatica, la matematica, le lingue. Insegnerei queste cose fino a quando le imparano veramente. Come scritto al punto 2, non insegnerei quelle materie ma dedicherei tanto tempo per trasmettere l'esigenza di sapere la storia o la geografia e così via. Anche se sono sicuro che se la scuola non massacrasse i ragazzi sin da quando hanno 8 anni, tutti avrebbero l'interesse nei confroni della storia o della geografia. Come si fa a non essere interessati a sapere come si vive in Giappone o che si faceva 500 anni fa? E se non lo si è non ci dovrebbe volere molto a suscitare questo interesse. Invece la scuola massacra qualunque interesse invece di suscitarlo.
4. ridurrei drasticamente i compiti per lasciare i ragazzi più liberi di instaurare rapporti nella comunità in cui vivono senza lo stress dei compiti.
5. rispetterei il diritto al riposo del week-end eliminando i compiti il sabato e la domenica.

Conclusioni.
Studiare la storia, la geografia, la letteratua, l'arte, la filosofia, voler imparare a conoscere gli strumenti con cui i ragionieri predispongono i bilanci o le fabbriche producono pezzi, sono cose talmente belle ed entusiasmanti che spero davvero che un mio futuro figlio sarà quel pochino sensibile ed intelligente da dovermi evitare di usare la terribile espressione: prima fai i compiti e poi fai quello che ti pare. (mi piangerebbe il cuore impedirgli di fargli fare quello che gli pare) La verità è che spesso genitori ed insegnanti sono i primi a cui non gliene frega niente della storia, della geografia, della letteratura ecc. e quindi viene loro difficile convincere un ragazzo (che in genere è pieno di vita) a studiare solo perché un giorno potrà avere un titolo. Se un insegnante invece ama la sua materia, è felice di sapere le cose che sa e quindi difficilmente un ragazzo rimane insensibile, perché il ragazzo vede che la persona di fronte a lui sta bene e quindi anche lui vorrebbe stare bene.